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Original text from Civiltà Cattolica
Posted by Andreas (Guest) - Thursday, December 4 2003, 7:55:24 (EST)
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Shlama all,

Here's the full original text from the Jesuite magazin "Civiltà Cattolica" on the situation of Christians in Islamic countries.



Best

Andreas
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http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2003/3680/Articolo%20De%20Rosa.html

I CRISTIANI NEI PAESI ISLAMICI

Come vivono i cristiani nei Paesi a maggioranza islamica? È opportuno porsi
oggi questo interrogativo, poiché si parla molto dei musulmani immigrati nei
Paesi europei di tradizione cristiana, ma raramente si considera la
situazione in cui vivono i cristiani nei Paesi a maggioranza islamica.

Scomparsa del cristianesimo dai territori conquistati dall'islàm
Si deve rilevare anzitutto un fatto in apparenza assai curioso: in tutti i
Paesi dell'Africa del Nord (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco), prima
dell'invasione musulmana (conquista dell'Egitto nel 640-642 d. C., della
Tripolitania, della Tunisia e dell'Algeria nei secoli VII-VIII), nonostante
l'invasione dei vandali, c'erano fiorenti comunità cristiane, che avevano
dato alla Chiesa universale grandi personalità, come Tertulliano, san
Cipriano, vescovo di Cartagine, morto martire nel 258, sant'Agostino,
vescovo di Ippona e san Fulgenzio, vescovo di Ruspe. Dopo la conquista
araba, il cristianesimo fu assorbito a tal punto dall'islàm che oggi esso è
presente con un significativo numero di fedeli soltanto in Egitto con i
copti ortodossi e con altre piccole minoranze cristiane, che rappresentano
in tutto il 7-10% della popolazione egiziana.

Lo stesso si deve dire del Medio Oriente (Libano, Siria, Palestina,
Giordania, Mesopotamia) nel quale c'erano fiorenti terre cristiane prima
dell'invasione islamica e in cui oggi sono presenti solamente piccole
comunità cristiane, a eccezione del Libano, dove i cristiani costituiscono
una significativa parte della popolazione.

Per quanto riguarda l'attuale Turchia, essa era stata nei primi secoli
cristiani la terra in cui il cristianesimo aveva dato i suoi frutti migliori
nel campo sia della liturgia e della teologia, sia della vita monastica. L'
invasione dei turchi selgiuchidi e la conquista di Costantinopoli da parte
di Mehmet II (1453) condussero alla costituzione dell'impero ottomano e alla
pratica distruzione del cristianesimo nella penisola anatolica. Così oggi in
Turchia i cristiani si aggirano intorno ai 100.000, tra i quali un piccolo
numero di ortodossi, che vivono attorno al Phanar, sede del Patriarca
ecumenico di Costantinopoli, il quale ha il primato di onore sul mondo
ortodosso e col quale sono in comunione ecclesiastica otto Patriarcati e
molte Chiese autocefale in Oriente e in Occidente, con circa 180 milioni di
fedeli.

In conclusione, possiamo storicamente constatare che in tutti i luoghi in
cui si è imposto l'islàm con la sua azione militare, che per la sua rapidità
e la sua estensione ha pochi esempi nella storia, il cristianesimo, che vi
era straordinariamente fiorente e radicato da secoli, è praticamente
scomparso oppure si è ridotto a piccole isole in uno sterminato mare
islamico. Come ciò sia potuto accadere non è facile spiegarlo. Rileviamo
anzitutto che molto spesso i nuovi conquistatori musulmani sono stati
accolti favorevolmente dalle popolazioni cristiane che mal sopportavano i
dominatori bizantini e l'esosità del loro sistema fiscale. D'altra parte, l'
impero bizantino, per le guerre continue che doveva sostenere per arginare l
'avanzata verso il Sud dei popoli del Nord (longobardi) e degli slavi, per
le tensioni religiose (lotta iconoclasta e rottura con la Chiesa di Roma) e
per i problemi sociali che lo agitarono e lo indebolirono, non fu in grado
di opporsi all'avanzata degli eserciti islamici, i quali, pochi anni dopo la
morte di Muhâmmad (632), conquistarono la Siria (636), la Persia (636 e
641), Gerusalemme (638), l'Egitto (640-642) e l'Africa del Nord, e si
spinsero in Oriente, conquistando Bukhâra e Samarcanda nel 709 e 711, e in
Occidente, attraversando lo stretto di Gibilterra (711), conquistando gran
parte della penisola iberica e spingendosi fino a Narbona (720). Fermò l'
avanzata islamica in Europa soltanto la sconfitta di Poitiers (732) ad opera
di Carlo Martello(1).

In realtà, la riduzione del cristianesimo a piccola minoranza non fu dovuta
a forme di persecuzione religiosa violenta, ma alla condizione in cui i
cristiani, nell'organizzazione dello Stato islamico, erano costretti a
vivere. Certo, non mancarono nel mondo musulmano persecuzioni contro i
cristiani, ma furono eccezioni. «Le persecuzioni più decise e consistenti
avvennero verso la metà del IX secolo sotto al-Mutawakkil e, soprattutto,
più tardi in Egitto, all'inizio dell'XI secolo, sotto Al-Hâkim bi-Amr Allâh.
Sotto i mamelucchi bahriti (1293-1354) la persecuzione si fa sistematica:
gli storici musulmani segnalarono decine di chiese distrutte e di
conversioni forzate. L'intolleranza divenne allora un esercizio pressoché
continuo, come hanno dimostrato le ricerche più recenti. [...] vi sono state
frequentemente, direi persino costantemente, pressioni - e pressioni molto
concrete - ieri come ai nostri giorni»(2).

Si deve però ricordare che sotto la dinastia dei califfi abbâsidi - la quale
regnò dal 749 al 1258 d. C. ed ebbe per capitale Baghdad, fondata da
al-Mansur, secondo califfo della dinastia - i cristiani nelle regioni
conquistate dall'islàm ebbero un'importanza capitale sia nel campo della
cultura, sia nel settore dell'amministrazione dello Stato. In realtà, quando
gli arabi musulmani conquistarono Paesi come la Siria e l'Egitto, restarono
meravigliati dinanzi alla cultura dei loro popoli in campo filosofico e
scientifico e dinanzi alla magnificenza delle chiese, dei monasteri e delle
costruzioni pubbliche. Volendo fare proprie tali ricchezze culturali, si
servirono dei cristiani per far tradurre in arabo le opere di Aristotele e
dei commentatori aristotelici, come Alessandro di Afrodisia; di Platone e
dei neoplatonici, come Porfirio; di Ippocrate e di Galeno; di Euclide e dei
trattati di matematica, di trigonometria e di astronomia. Poiché tra il VI e
l'VIII secolo molte di tali opere erano state tradotte in siriaco, i califfi
abbâsidi organizzarono gruppi di traduttori, formati da cristiani siriaci,
per la traduzione in arabo di tali opere.

In campo amministrativo, nei primi secoli dell'islàm, i cristiani occuparono
posti importanti, anche se per lo più non direttivi. Molto ricercata era l'
opera dei medici cristiani, chiamati spesso a dirigere gli ospedali. Eppure,
ciononostante, la condizione dei cristiani all'interno della società
musulmana era tale da condurli lentamente alla scomparsa o da ridurli a
piccole minoranze. Perché?

Il volto guerriero dell'islàm: il «jihad»

Lo Stato costituito da Muhâmmad era totalmente teocratico: in esso cioè
tutto era subordinato ad Allah e al Corano, il «Libro» da lui rivelato o,
meglio, «fatto scendere» sul suo Inviato e Profeta, Muhâmmad. Perciò la
legge dello Stato musulmano dovrebbe essere necessariamente la legge
coranica, la sharî'a. Secondo il diritto musulmano, il mondo è diviso in tre
parti: dâr al-harb (casa della guerra), dâr al-islam (casa dell'islàm) e dâr
al-'ahd (casa del patto), cioè i Paesi con i quali è stato stipulato un
patto. Questa è costituita dai Paesi nei quali vige la legge coranica e che
sono soggetti a Governi musulmani; il resto è terra degli infedeli, contro i
quali i musulmani, almeno in teoria, si trovano in stato di guerra, che
durerà finché tutto il mondo sarà assoggettato all'islàm; ci sono poi i
Paesi del patto.

Quanto ai Paesi appartenenti alla «casa della guerra», la legge canonica
islamica non riconosce altre relazioni con essi se non quelle proprie della
«guerra santa» (jihâd), che significa «sforzo» nella via di Allah e che ha
due significati, i quali sono ugualmente essenziali e che non devono essere
dissociati, quasi che l'uno possa sussistere senza l'altro. Nel primo
significato, il jihâd indica lo «sforzo» che il musulmano deve compiere per
essere fedele ai precetti del Corano e in tal modo migliorare la propria
«sottomissione» (islàm) ad Allah; nel secondo, indica lo «sforzo» che il
musulmano deve compiere per «combattere sulla via di Allah», cioè per
lottare contro gli infedeli e diffondere l'islàm in tutto il mondo. Il jihad
è un precetto della massima importanza, tanto che talvolta viene annoverato
tra i precetti fondamentali - come sesto «pilastro» - dell'islàm.

L'obbedienza al precetto della «guerra santa» spiega il fatto che quella
dell'islàm sia una storia di guerre senza fine per la conquista dei
territori degli infedeli: subito dopo la morte di Muhâmmad (632), sotto la
guida dei quattro califfi «ben guidati» (râshidûn), Abû Bakr, 'Umar (Omar),
'Uthmân e 'Alî, eserciti di beduini arabi, mal equipaggiati, ma votati alla
causa, riuscirono a sconfiggere in numerose battaglie gli eserciti bizantini
e persiani, assai superiori di numero, ma scarsamente motivati, apatici e
talvolta simpatizzanti con gli invasori, conquistando con incredibile
rapidità grandi Paesi come la Siria, la Persia e l'Egitto, e soprattutto
Gerusalemme, chiamata Al-Quds da 'Umar, che se ne impadronì nel 638. Erano
passati appena sei anni dalla morte di Muhâmmad e dai disordini a cui diede
luogo la sua successione a capo dell'umma islamica.

Per i musulmani le vittorie sui bizantini e sui persiani erano il segno del
favore di Allah: si ripeteva il «miracolo di Badr», dove Muhâmmad con 300
uomini aveva sbaragliato una truppa di 1.000 meccani, riportandone
abbondante bottino (Corano, 1. 3, 13). Così, le guerre d'invasione dell'
islàm continuarono, portando i musulmani a Ovest fin nel cuore della
Francia, a Nord-Est fino a Samarcanda e a Sud-Est fino all'India e all'
odierna Indonesia.

Ma tutta la storia islamica fu dominata dall'idea della conquista delle
terre cristiane dell'Europa occidentale e dell'impero romano d'Oriente, la
cui capitale era Costantinopoli. Così, durante lunghi secoli, l'islàm e la
cristianità si affrontarono in terribili battaglie, che da un lato
condussero alla conquista di Costantinopoli (1453), della Bulgaria, della
Grecia e, dall'altro, alla sconfitta dell'impero ottomano nella battaglia
navale di Lepanto (1571).

Ma lo spirito di conquista dell'islàm dopo Lepanto non cessò. L'avanzata
islamica in Europa fu definitivamente fermata soltanto nel 1683, quando
Vienna fu liberata dall'assedio ottomano dalle armate cristiane al comando
di Giovanni III Sobieski, re di Polonia. Intanto nei secoli precedenti si
era conclusa con la presa di Granada (1492) la reconquista cristiana della
Spagna, mentre negli anni 1061-91 i normanni avevano liberato la Sicilia
dagli arabi che l'avevano conquistata nei secoli IX-X. In realtà, per quasi
mille anni, a partire dalla conquista della Spagna, iniziata nel 711 da
Tariq - il capo arabo da cui deriva il nome di Gibilterra (Gebel-el Târiq:
Monte Tariq) e dalla conquista della Sicilia fino al secondo assedio di
Vienna (1683), l'Europa è stata sotto la costante minaccia dell'islàm, che
per ben due volte ne ha messo in serio pericolo la sopravvivenza.

Così, in tutta la sua storia, l'islàm ha mostrato un volto guerriero e uno
spirito conquistatore a gloria di Allah. La cosa non deve stupire. È vero
che la «spada dell'islàm» non sempre è stata mossa e guidata da spirito
religioso, cioè dal desiderio di estendere l'islàm e di procurare nuovi
muslimûn, vale a dire «sottomessi» ad Allah, il Dio vero, Unico (wâhid) e
Uno in sé (ahad). Tuttavia lo spirito di conquista «religiosa» compiuta con
il jihâd è stato sempre vivo nell'islàm, in obbedienza al Corano che
ripetutamente esorta i «credenti» a «combattere sulla via di Dio» («per la
causa di Dio») contro gli «idolatri», che devono essere posti nell'
alternativa: convertirsi all'islàm o essere uccisi; ma anche contro gli
«infedeli», cioè contro «la gente del Libro» (Ahl al-Kitab) (cristiani,
ebrei e sabei), i quali devono essere sottoposti a un regime speciale. In
particolare, il Corano esorta i credenti a sacrificare la vita presente per
quella futura, perché i combattenti che cadono nella guerra santa contro gli
idolatri e gli infedeli sono «martiri» (s. 3, 140) e perciò Allah cancella
tutte le loro cattive azioni e concede ad essi come ricompensa il paradiso,
dove godranno tutte le delizie, materiali e spirituali. Quanto alla «gente
del Libro», i musulmani devono «combatterla finché i suoi membri non paghino
il tributo, a uno a uno, umiliati» (s. 9, 29). In realtà, «la guerra santa è
un dovere religioso e deve intraprendersi con la retta intenzione (niyya) di
propagare l'islàm»(3).

Il regime della «dhimma»

Secondo il diritto musulmano, i cristiani, gli ebrei e i seguaci di altre
religioni assimilate al cristianesimo e all'ebraismo (i «sabei») che abitano
in uno Stato musulmano appartengono a un ordine sociale inferiore,
nonostante la loro eventuale appartenenza alla stessa razza, alla stessa
lingua e alla stessa discendenza. La legge islamica non conosce i concetti
di nazione e di cittadinanza, ma solamente l'umma, l'unica comunità
islamica, per cui il musulmano, in quanto fa parte dell'umma, può vivere in
qualsiasi Paese islamico come nella sua patria: egli è soggetto alle stesse
leggi, trova le stesse usanze e gode della stessa considerazione.

Invece gli appartenenti alla «gente del Libro» sono soggetti alla dhimma,
che è una specie di patto bilaterale, consistente nel fatto che lo Stato
islamico autorizza la «gente del Libro» a risiedere sul proprio territorio,
ne tollera la religione, le garantisce la «protezione» delle persone e dei
beni e la difesa contro i nemici esterni. Così la «gente del Libro» (Ahl
al-Kitab) diviene «gente protetta» (Ahl al-dhimma). In cambio di tale
«protezione», la «gente del Libro» si impegna a pagare allo Stato islamico
un'imposta (óizya), che grava soltanto sugli uomini abili, di condizione
libera, escludendo donne, bambini, infermi e vecchi, e a pagare un tributo,
detto haraó, sulle terre possedute.

Per quanto riguarda la libertà di culto, ai dhimmî sono proibite soltanto le
manifestazioni esterne di culto, come il suono delle campane, le processioni
con croci, i funerali solenni, la vendita pubblica di oggetti di culto o di
altri articoli proibiti per i musulmani. Un musulmano che sposa una
cristiana o un'ebrea dovrà lasciarla libera nell'esercizio della sua
religione e anche nell'uso dei cibi permessi dalla sua religione, anche se
proibiti a un musulmano, come la carne di maiale e il vino. I dhimmî possono
conservare o riparare le chiese o sinagoghe che già posseggono; ma, se non c
'è stato un patto che permetta ad essi il possesso di terre proprie, non
possono costruire nuovi luoghi di culto, perché per fare questo dovrebbero
occupare una terra musulmana, che non può essere ceduta a nessuno, essendo
divenuta, con la conquista musulmana, terra «sacra» ad Allah.

Nella sura 9, 29 il Corano afferma che la «gente del Libro», oltre ad essere
costretta a pagare le due tasse di cui si è detto sopra, va sottoposta ad
alcune restrizioni, come il vestire in modo speciale, la proibizione di
portare armi e di montare a cavallo. Inoltre i dhimmî non possono far parte
dell'esercito, essere funzionari dello Stato, essere testimoni in giudizi
tra i musulmani, prendere in moglie le figlie di questi, essere tutori di
minori musulmani o tenere schiavi musulmani. Non possono ereditare da
musulmani, né questi da essi; sono però permessi i legati.

Lo scioglimento della dhimma sopravviene, anzitutto, con la conversione
della «gente del Libro» all'islàm; ma i musulmani, specialmente nei primi
secoli, non hanno visto con favore tali conversioni, perché significavano
una grave perdita per l'erario, che era tanto più florido quanto più
numerosi erano i dhimmî, che pagavano la tassa personale e l'imposta
fondiaria. Lo scioglimento della dhimma poteva avvenire, inoltre, per il
mancato adempimento del «patto», nel caso cioè che i dhimmî prendessero le
armi contro i musulmani; nel caso che rifiutassero di stare sottomessi o di
pagare i tributi; nel caso che rapissero una musulmana, bestemmiassero o
oltraggiassero in qualche maniera il profeta Muhâmmad e la religione
islamica; nel caso, infine, che facessero allontanare un musulmano dall'
islàm, cercando di convertirlo alla propria religione. Secondo la gravità di
ciascun caso, la pena poteva essere la confisca dei beni, la riduzione in
schiavitù o la pena di morte; salvo che chi avesse commesso tali delitti non
si convertisse all'islàm. In tal caso, ogni pena era abolita.

Conseguenza della «dhimma»: l'«erosione» del cristianesimo

È evidente che la condizione di dhimmî, prolungandosi nei secoli, ha portato
lentamente, ma inesorabilmente, alla quasi sparizione del cristianesimo
nelle terre musulmane: la condizione di inferiorità civile, che impediva ai
cristiani di accedere alle cariche pubbliche, e la condizione d'inferiorità
religiosa, che li chiudeva in una vita e una pratica religiosa asfittica e
senza nessuna possibilità di sviluppo, poneva i cristiani o nella necessità
di emigrare o, più frequentemente, nella tentazione di passare all'islàm.
Tanto più che un cristiano non poteva sposare una donna musulmana se non si
convertiva all'islàm, anche perché i suoi figli dovevano essere educati nell
'islamismo. C'era inoltre per un cristiano passato all'islàm la possibilità
di divorziare con estrema facilità, mentre il cristianesimo proibiva il
divorzio. D'altra parte, i cristiani che si trovavano nei territori
musulmani erano fortemente divisi tra loro - e spesso anche nemici - poiché
appartenevano a Chiese diverse per confessione (Chiese calcedonesi e
non-calcedonesi) e per riti (siro-orientale, antiocheno, maronita,
copto-alessandrino, armeno, bizantino): cosicché ogni mutuo aiuto era
praticamente quasi impossibile.

Il regime della dhimma è durato per oltre un millennio, sia pure non sempre
e dappertutto nella forma dura datagli dalle «condizioni di 'Umar»(4),
secondo le quali non soltanto i cristiani non hanno diritto a costruire
nuove chiese e a restaurare quelle esistenti, anche se cadono in rovina (e,
se hanno il permesso di costruire dalla benignità del governatore musulmano,
le chiese non devono essere di grandi dimensioni: l'edificio dev'essere più
modesto di tutti gli edifici religiosi dei dintorni); ma le chiese più
grandi e più belle devono essere trasformate in moschee. Tale trasformazione
faceva sì che le chiese-moschee non potessero più essere rese alla comunità
cristiana, perché un luogo divenuto moschea non può essere destinato ad
altro uso.

La conseguenza del regime della dhimma è stata l'«erosione» delle comunità
cristiane e il passaggio di molti cristiani all'islàm per motivi economici,
sociali e politici: per trovare un lavoro migliore, per godere di maggiore
considerazione sociale, per partecipare alla vita amministrativa, politica e
militare, e non vivere in una condizione di perpetua discriminazione. Negli
ultimi secoli, il sistema della dhimma ha subìto alcune attenuazioni, anche
perché pure nei Paesi musulmani hanno preso piede la nozione di
«cittadinanza» e quella di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo
Stato. «In pratica, tuttavia, anche dopo la diffusione di concetti politici
occidentali, la concezione tradizionale resta latente, presente nel
subconscio. La nozione moderna della cittadinanza, malgrado considerevoli
sforzi di intellettuali di ogni orientamento, non entra che lentamente e a
fatica nella maggior parte dei Paesi arabo-musulmani. Si ha l'impressione
che, nell'orientamento di fondo (se non nella legge) di molti Stati
musulmani, le categorie classiche di umma e di dhimma, della comunità
dominante e delle altre comunità più o meno dominate, siano sempre presenti.
Il cristiano, che lo voglia o no, è ricondotto suo malgrado al concetto di
dhimmî, anche se il termine non ricorre più nel diritto attuale di buona
parte dei Paesi a maggioranza islamica(5).

Condizione attuale dei cristiani nel mondo islamico

Qual è oggi la condizione dei cristiani nel mondo islamico e quali sono le
prospettive per il futuro? Ricordiamo anzitutto che la presenza dei
cristiani nel mondo musulmano non è uniforme. Nei Paesi del Maghreb
(Tunisia, Algeria, Marocco) il cristianesimo è quasi del tutto scomparso: la
massima parte dei cristiani ivi residenti sono di origine europea; soltanto
pochissimi provengono dall'islàm. In Egitto, i copti(6) sono una minoranza
rilevante. Negli altri Paesi del Vicino Oriente (Libano, Siria, Giordania,
Palestina, Iraq) - includendo l'Egitto - i cristiani sono 6-7 milioni, cioè
il 6,3% della popolazione.

Per comprendere la condizione attuale di questi cristiani, bisogna rifarsi
alla storia dei secoli XIX e XX. Nel secolo XIX, nell'Impero ottomano, in
cui vigeva il sistema del millet, furono introdotte le tanzîmât
(«regolamentazioni»). Si trattava di riforme liberali, introdotte nel
funzionamento dello Stato dal 1839 (data in cui il sultano Abd ül-Mejîd
proclamò l'uguaglianza di tutti i sudditi davanti alla legge) al 1876 (data
della promulgazione della prima Costituzione). Dalla seconda metà dell'
Ottocento fino alla fine della prima guerra mondiale (con il dissolvimento
dell'Impero ottomano) ci fu nel mondo arabo un movimento di «Risveglio»
(Nahda), sotto l'influsso occidentale, nel campo della letteratura, della
lingua e del pensiero. Molti intellettuali furono conquistati dalle idee
liberali.

D'altra parte, i cristiani strinsero forti legami con le potenze
occidentali - in particolare con la Francia e la Gran Bretagna - che, dopo
la dissoluzione dell'impero ottomano, ottennero il protettorato sui Paesi
che facevano parte di esso. Questo fatto permise ai cristiani sia una
maggiore libertà civile e religiosa, sia una crescita del loro livello
culturale. Inoltre, nella prima metà del secolo XX, nacquero vari partiti
politici d'intonazione nazionalista e socialista, e dunque laici, come il Ba
'th (Partito socialista della Risurrezione Araba) fondato alla fine degli
Anni Trenta a Damasco dall'insegnante siriano Michel 'Aflaz, di religione
greco-ortodossa, che nel 1953 si fuse col Partito Popolare Siriano, fondato
nel 1932 dal libanese greco-ortodosso Antun Sa'âda. Infine, in vari Paesi
islamici sorsero regimi politici ispirati ai princìpi liberali e laici dell'
Occidente europeo.

Questi fatti suscitarono nel mondo islamico una forte reazione, dovuta al
timore che le idee laiche e i costumi «corrotti» del mondo occidentale,
identificato con il cristianesimo, nuocessero alla purezza dell'islàm e
costituissero un pericolo mortale per la sua stessa esistenza. Questa
reazione era alimentata da un forte risentimento contro le potenze
occidentali, che avevano osato imporre il loro dominio politico all'islàm,
«la migliore nazione mai suscitata da Allah tra gli uomini» (Corano, s. 3,
110), e i loro costumi «depravati» «alla nazione (umma) che invita al bene,
promuove la giustizia e impedisce l'iniquità» (ivi, s. 3, 104).

Nacque così «l'islamismo radicale» che si fece interprete delle frustrazioni
delle masse musulmane: Hasan al Bannâ, Sayyd Qutb, Abd al-Qâdir 'Uda in
Egitto con i fratelli Musulmani; Abu l-A'lâ al-Mawdûdî in Pakistan e l'
âyatollâh Khomeini in Iran ne sono i testimoni più significativi e i loro
seguaci, da Dakar e Kuala Lumpur, si sono moltiplicati ammonendo il sovrano
(come in Marocco), facendo trionfare un Fronte Islamico di Salvezza (come in
Algeria): da esso è nato un gruppo assai più crudele e intransigente, il
Groupe Islamique Armé (GIA), sviluppando un movimento di tendenza o di
rinascita islamica (come in Tunisia) o insorgendo contro il potere
costituito (come in Siria, ad Hamâ, nel 1982)(7).

Rinascita dell'islamismo «fondamentalista» e «radicale»

L'islamismo radicale, il quale propone che in ogni Stato islamico sia
instaurata la sharî'a, sta prendendo piede in molti Paesi islamici, in cui
sono presenti gruppi di cristiani. È evidente che l'instaurazione della
sharî'a renderebbe assai difficile la vita ai cristiani e la loro stessa
esistenza sarebbe in continuo pericolo. Di qui l'emigrazione massiccia dei
cristiani dai Paesi islamici verso i Paesi occidentali: Europa, Stati Uniti,
Canada e Australia. Indubbiamente tale fuga non è dovuta solamente all'
affermarsi, in molti Paesi, del fondamentalismo islamico:ci sono anche
motivi sociali, economici e politico-militari che hanno il loro peso; ma il
fatto che la loro libertà religiosa possa essere - o sia già - limitata
gravemente dall'imposizione della sharî'a rende onerosa la loro permanenza
nei Paesi islamici. Quello che è certo, ad ogni modo, è che negli ultimi
decenni «le stime degli arabi cristiani che sono emigrati - da Egitto, Iraq,
Giordania, Siria, Libano, Palestina e Israele - si aggirano intorno ai tre
milioni, cioè fra il 34,1 e 26,5 per cento del numero stimato di cristiani
attualmente presenti nel Medio Oriente» (8).

In proposito non bisogna sottovalutare fatti gravi avvenuti di recente a
danno dei cristiani in alcuni Paesi a maggioranza islamica: così, in
Algeria, il vescovo di Orano, P. Claverie (1996), sette trappisti di
Tibehirini (1999), quattro Padri Bianchi (1994) e sei suore di diverse
Congregazioni religiose sono stati barbaramente uccisi dai fondamentalisti
islamici, anche se l'assassinio è stato condannato da numerosi responsabili
musulmani. Nel Pakistan, che conta 3.800.000 cristiani su una popolazione
per il 96% islamica di 156.000.000 di abitanti, il 28 ottobre 2001 alcuni
islamici entrarono nella chiesa san Domenico a Bahawalpur e uccisero a
fucilate 18 cristiani. Il 6 maggio 1998, il vescovo cattolico John Joseph si
era tolto la vita per protestare contro la legge sulla bestemmia, che
punisce con la morte chi è accusato di offendere Maometto anche solo
«pronunciando parole, o con gesti e mediante allusioni, direttamente o
indirettamente». Dicendo, per esempio, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio,
si offende Maometto, il quale afferma che Gesù non è Figlio di Dio, ma suo
«servo». Perciò con tale legge la vita dei cristiani è in continuo pericolo
di morte.

In Nigeria - dove 13 Stati hanno introdotto la sharî'a come legge dello
Stato -, parecchie migliaia di cristiani sono state vittime di incidenti(9).
Stanno avvenendo fatti gravi nel Sud delle Filippine e nell'Indonesia, che
con i suoi 212 milioni di abitanti è il Paese musulmano più popoloso del
mondo, a danno dei cristiani di Giava, di Timor Est e delle Molucche. Ma la
situazione più tragica - e purtroppo dimenticata dal mondo occidentale! - è
quella del Sudan, dove il Nord è arabo e musulmano, e il Sud è nero e
cristiano e, in parte, animista. Dai tempi del presidente G. M. Nimeiry c'è
uno stato di guerra civile tra il Nord, che ha proclamato la sharî'a e
intende imporla con feroce violenza a tutto il Paese, e il Sud che intende
conservare e difendere la propria identità cristiana. Il Nord si serve di
tutta la sua potenza militare - finanziata dalle esportazioni di petrolio in
Occidente - per distruggere i villaggi cristiani, impedire l'arrivo di
sussidi umanitari, uccidere il bestiame, fonte di sostentamento per molti
sudanesi del Sud, fare razzie, in particolare di ragazze cristiane, che
vengono portate al Nord, stuprate e vendute come schiave o concubine di
anziani ricchi sudanesi. Secondo il Rapporto annuale 2001 di Amnesty
International, «alla fine del 2000, la guerra civile, ripresa nel 1983, era
costata la vita a quasi due milioni di persone ed era stata la causa dello
sfollamento forzato di altri 4.500.000. Decine di migliaia di persone sono
state spinte dal terrore a lasciare le proprie case nell'area del Nilo
superiore, ricca di petrolio, in seguito a bombardamenti aerei, esecuzioni
di massa e torture».

Si deve infine ricordare un fatto che spesso si dimentica perché l'Arabia
Saudita è la maggiore fornitrice di petrolio del mondo occidentale, e quest'
ultimo ha quindi interesse a non guastare i suoi rapporti con quel Paese. In
realtà, nell'Arabia Saudita, dove vige il wahhabismo(10), non solo non è
possibile costruire una chiesa o anche un piccolissimo luogo di culto
cristiano, ma è severamente proibito con pene durissime ogni atto di culto
cristiano e anche ogni segno di fede cristiana. Così circa un milione di
cristiani e cristiane, che lavorano in Arabia Saudita, sono privati, con la
violenza, di ogni pratica e di ogni segno cristiano. Essi possono
partecipare alla Messa o ad altre pratiche cristiane - e anche allora con
grave pericolo di perdere il lavoro - soltanto nei locali delle imprese
petrolifere estere. Eppure, l'Arabia Saudita spende miliardi di
petrodollari, non a beneficio dei suoi cittadini poveri o dei musulmani
poveri di altri Paesi musulmani, ma per costruire in Europa moschee e
madrasa e finanziare gli imâm delle moschee in tutti i Paesi occidentali. Si
può ricordare che la moschea romana di Monte Antenne, costruita su un suolo
donato gratuitamente dal Governo italiano, è stata finanziata principalmente
dall'Arabia Saudita ed è stata costruita per essere la moschea più grande d'
Europa nel cuore stesso della cristianità.

Ricordando questi fatti - del passato e del presente - abbiamo inteso
sottolineare il valore che ha nella vita dei popoli la libertà religiosa e,
quindi, la necessità che in ogni nazione essa sia assicurata a tutti i
cittadini e a tutti i gruppi religiosi, quale che sia la loro consistenza
numerica. In realtà, la libertà religiosa tocca la persona umana in ciò che
essa ha di più intimo: perciò, la sua negazione e anche soltanto la sua
limitazione ferisce profondamente le persone e le costringe o a vivere una
vita di dolorose e umilianti discriminazioni o ad emigrare in altri Paesi.
Vediamo perciò con grave preoccupazione che in taluni Stati a maggioranza
musulmana si voglia imporre la sharî'a come legge dello Stato, in vigore per
tutti i cittadini, anche non musulmani. Questo sarebbe non solo un'ingiusta
oppressione delle coscienze, ma anche un grave errore politico, perché
metterebbe uno Stato che così agisse fuori della comunità internazionale, la
quale riconosce nella libertà - e nella libertà religiosa - uno dei suoi
princìpi costitutivi.

È proprio in base al principio della libertà religiosa che l'Italia intende
stabilire un'Intesa con la comunità musulmana residente nel nostro Paese.
Non è stato possibile attuarla poiché finora i vari gruppi musulmani
presenti in Italia - per contrasti interni dovuti a molti fattori, tra i
quali il legame con gli Stati di origine - non sono riusciti a costituire
una rappresentanza unitaria, che possa trattare autorevolmente col Governo
italiano e prendere impegni che obblighino tutti i musulmani residenti in
Italia. D'altra parte ci sono problemi - in particolare quelli riguardanti
il diritto di famiglia, la posizione della donna, il diritto ereditario -
che creano difficoltà non piccole per un accordo che rispetti le leggi
italiane. Il nostro auspicio è che si riesca a superare tali difficoltà,
affinché i musulmani italiani siano accolti e rispettati al pari dei
cittadini italiani e riescano a integrarsi nel nostro Paese, pur conservando
e professando liberamente la loro religione, e non costituiscano - ciò che
sarebbe un danno per tutti - dei «ghetti», non integrati nella comunità
italiana.

Giuseppe De Rosa S.I.

1 Si ritiene comunemente che la sconfitta di Poitiers abbia fermato l'
avanzata islamica in Francia. In realtà, essa continuò: nel 735 gli arabi si
impossessarono di Arles e di Avignone; dalla Provenza passarono nel
Delfinato, giunsero fino a Lione, occuparono Valence e diedero alle fiamme
le chiese nei dintorni di Vienne. Soltanto nel 759 Pipino il Breve riuscì a
liberare Narbona, mettendo fine definitivamente alla conquista islamica
della Francia, mentre la Spagna restava saldamente in mano agli arabi col
nome di Ândalus e capitale Cordova, divenendo dapprima un emirato, ad opera
dell'omâyyade 'Abd ar-Rahmân, nel 756, e poi nel 929 un califfato, che durò
fino al 1031.

2 S. K. SAMIR, «Le comunità cristiane, soggetti attivi della società araba
nel corso della storia», in A. PACINI (ed.), Comunità cristiane nell'islam
arabo. Una sfida del futuro, Torino, Fondazione G. Agnelli, 1996, 80. Del p.
Samir la nostra rivista ha pubblicato numerosi articoli.

3 F. M. PAREJA, Islamologia, Roma, Orbis Catholicus, 1951, 425.

4 Si tratta di «condizioni» contenute in un documento attribuito al califfo
'Umar, morto nel 644, ma che potrebbe essere stato redatto sotto il governo
di 'Umar II (681-720). Esso limita enormemente i diritti dei dhimmî. Fra l'
altro, vieta la conversione al cristianesimo e la punisce con la morte del
musulmano che si è convertito e del cristiano che lo ha convertito: è «la
punizione dell'apostasia» (hadd al-ridda).

5 Cfr S. K. SAMIR, «Le comunità cristiane...», cit., 85 s. Le limitazioni al
regime della dhimma furono introdotte dapprima con le «capitolazioni», che
erano trattati secondo i quali uno Stato musulmano concedeva a uno Stato
cristiano il diritto di esercitare la propria giurisdizione sui propri
sudditi cristiani che si trovavano all'interno dello Stato musulmano. La
denominazione deriva dai capitula, in cui erano divisi i trattati di questo
tipo con l'Impero ottomano. Di queste «capitolazioni» la prima - sulla quale
poi si modellarono tutte le altre - fu stipulata tra il re di Francia,
Francesco I, e il sultano ottomano Suleyman (Solimano) I, nel 1536. La
seconda limitazione della dhimma si ebbe nell'impero ottomano con la
costituzione del millet (comunità religiosa, nazione) secondo il quale
ciascuna comunità religiosa aveva il diritto di regolarsi secondo leggi
sociali e amministrative proprie. Ogni millet aveva un capo riconosciuto che
rappresentava i propri correligionari di fronte al Governo ottomano.

6 Il termine «copto» deriva dal greco Aigyptos (Egitto) attraverso l'arabo
Qubt o Qibt, e designa i cristiani indigeni dell'Egitto, la cui Chiesa, a
partire dal V secolo, fu ritenuta monofisita, e perciò perseguitata dai
bizantini: questo spiega il fatto che gli arabi - accolti con favore dalle
popolazioni egiziane - conquistarono con facilità l'Egitto nel 641. Nei
secoli XIX e XX la Chiesa copta assunse il nome di Chiesa copta «ortodossa».
Recentemente (1973 e 1988) essa ha sottoscritto con la Chiesa cattolica un
documento di fede cristologica. Il patriarca - che è oggi Shenuda III -
risiede al Cairo ed è patriarca di Alessandria e di tutta l'Africa. Il
numero dei copti ortodossi (c'è anche un piccolo numero - 150.000 - di copti
cattolici) oscilla (secondo le statistiche) da un minimo di 3.200.000 a un
massimo di 6.000.000 e di 8.000.000. Circa 400.000 copti vivono nella
diaspora (Europa, USA, Canada, Australia); in Italia ci sono due diocesi
copte (Milano e Torino-Roma).

7 M. BORRMANS, «Prefazione», in P. BRANCA, Voci dell'Islam moderno. Il
pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, Genova, Marietti,
1991, XI.

8 B. SABELLA, «L'emigrazione degli arabi cristiani: dimensioni e cause dell'
esodo», in A. PACINI (ed.), Comunità cristiane nell'islam arabo, cit., 141.

9 L'Agenzia Misna del 30 gennaio 2002 informa che, in occasione del «caso
Safiya» la giovane donna condannata a morte per essere rimasta incinta fuori
del matrimonio, i vescovi cattolici, in una lettera pastorale, hanno
affermato: «Basta con questa pazzia! Dalla nascita della nuova democrazia in
Nigeria, nel maggio 1999, è stata proprio la sharî'a a minacciare l'armonia
e la stabilità del Paese. Si sono già verificati conflitti che si potevano
evitare tra cristiani e musulmani, che hanno procurato gravi lutti e danni».

10 Il wahhabismo è un movimento di riforma dell'islàm, ispirato a un
rigorismo estremo e volto a conservare l'islàm nella sua purezza originaria.
Esso risale allo sceicco Muhâmmad Ibn 'Abd al-Wahhâb, il quale nell'Arabia,
a partire dalla regione del Naód, diffuse il suo movimento riformista nel
1740. La riforma era incentrata «sull'affermazione dell'esclusività del
culto che bisogna rivolgere a Dio e la conseguente lotta da condurre contro
ogni forma di politeismo e di empia innovazione in fatto di religione.
Proponeva inoltre l'applicazione della sharî'a islamica in ogni settore dell
'esistenza, progetto percorribile soltanto all'ombra di un potere politico
in grado di realizzare tali scopi» ('Abd Allâh al-Sâlih al-'Uthaymin, Storia
dell'Arabia Saudita, Palermo, Sellerio, 2001, 55). Infatti, lo sceicco
al-Wahhâb trovò protettori nella famiglia Su'ud, che estese il suo potere a
tutta l'Arabia, chiamata per tale motivo «Saudita». La dinastia saudita
governa ancora l'Arabia e ritiene sua missione diffondere l'islàm in tutto
il mondo, costruendo moschee e case di cultura (madrasa) e promovendo la da
'wa, cioè la «chiamata» di tutti gli uomini a convertirsi all'islàm, con
forti impegni finanziari. Al wahhabismo si sono ispirati tutti i movimenti
fondamentalisti e radicali, nati nell'islàm, in particolare i Fratelli
musulmani (al-Ikhwân al-muslimun), sorti in Egitto nel 1928, e ai quali si
deve, ad esempio, l'uccisione del presidente egiziano al-Sadât nel 1981.

© La Civiltà Cattolica 2003 IV 160-173 quaderno 3680



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